(intervista di Federico Rampini a Joseph Stiglitz, da la Repubblica, 12 aprile 2013)
«L'Italia
è vittima di un fallimento dell'austerity europea, state pagando un
prezzo più elevato della Grande Depressione, le vostre imprese sono
penalizzate a tutto vantaggio di quelle tedesche. Non accusate Beppe
Grillo di populismo: i temi che solleva sono legittimi, compresa
l'opzione estrema di un'uscita dall'euro. Niente governissimo Pd-Pdl,
per salvarsi l'Italia deve tagliare i ponti con la corruzione dell'era
Berlusconi».
Joseph Stiglitz, premio Nobel dell’economia, parla
nel suo “tempio”, alla Columbia University di New York. L’occasione è
una conferenza molto dotta, patrocinata dalla Italian Academy e dal
nostro Istituto di cultura. Il tema è impegnativo e attuale: Stiglitz
smonta uno per uno tutti i dogmi del pensiero economico neoclassico, o
delle sue versioni neoliberiste. Se c’è uno che ha le carte in regola
per istruire questo processo, è lui. Già consigliere di Bill Clinton
alla Casa Bianca, iniziò a contestare il pensiero unico sulla
globalizzazione negli anni Novanta; fu licenziato da vicepresidente
della Banca mondiale per le sue critiche all’istituzione; più di recente
fu uno dei primi a solidarizzare con gli “indignados” spagnoli e a
giustificare le rivolte anti-austerity. Con rigore teorico implacabile,
fa a pezzi l’idea di un homo economicus razionale, di un mercato capace
di auto-regolarsi. Espone l’inutilità del Pil come misuratore di
benessere (lui stesso ha ispirato molti governi e organismi
internazionali nella ricerca di indicatori alternativi). Stigmatizza
l’avidità dei banchieri e lo strapotere delle oligarchie capitalistiche.
Finita la conferenza, Stiglitz accetta di parlare di noi: l’Italia
nella trappola del-ìl’austerity, e come uscirne. Il premio Nobel sa di
essere diventato il massimo “guru” economico del Movimento 5 Stelle. E
non si tira indietro. Conosce la situazione politica italiana, risponde a
tutte le domande, anche le più delicate. Difende Grillo, pur
spingendolo nella direzione di un accordo con il Pd.
Grillo
ha proposto un referendum sull’euro, le sembra concepibile agitare la
possibilità di una nostra uscita dalla moneta unica?
«L’eurozona
deve cambiare le sue politiche di austerity. Perché l’euro funzioni
occorrono una vera unione bancaria con regole comuni, un’assicurazione
unica per i depositi dei risparmiatori, una vigilanza europea; poi ci
vuole la vera unione fiscale, l’emissione di euro-bond. Il sistema
attuale è instabile, incompiuto. Ci vuole più Europa oppure meno euro,
non si può restare a metà del guado. Alcune posizioni del M5S sono
fondate: un Paese come l’Italia potrebbe arrivare fino al punto di dover
abbandonare l’euro per salvare l’Europa. Sarebbe preferibile di no,
sarebbe meglio che fosse l’Europa ad abbandonare l’austerity».
Perché ritiene che per l’Italia possa diventare insostenibile l’appartenenza a questa unione monetaria?
«Le
regole attuali dell’Unione europea restringono la vostra possibilità di
fare una politica industriale, di cui avete gran bisogno. Il mercato
unico all’origine doveva creare condizioni eque di competizione, una
concorrenza leale. E’ fallito. Anzi: la competizione fra nazioni europee
non è mai stata così diseguale. Le imprese italiane oggi devono pagare
tassi d’interesse molto più alti delle imprese tedesche, anche ammesso
che riescano ad avere accesso al credito bancario. Questa non è
concorrenza leale, è un mercato squilibrato, altamente instabile. Se non
cambia, non vedo via d’uscita».
Per il momento non c’è
segnale che l’eurozona voglia cambiare rotta in modo sostanziale,
rinnegando l’austerity voluta dalla Germania.
«In assenza di
una svolta radicale e strutturale delle politiche economiche europee, è
probabile che l’Italia sia condannata a rimanere a lungo in recessione.
Oggi il vostro reddito nazionale è inferiore a quello del 2007, il
danno economico che subite è superiore perfino a quello della Grande
Depressione degli anni Trenta. Questo non è l’effetto ineluttabile di un
terremoto o di uno tsunami, è un fallimento economico determinato da
politiche sbagliate. L’Unione europea deve ammetterlo, deve rilanciare
la crescita, e allora anche il vostro debito pubblico diventerà
governabile».
Dunque lei difende un referendum sull’euro, che viene considerato una fuga in avanti populista.
«Gli italiani devono poter valutare, e mi rendo conto che questa valutazione è molto
complessa.
Dovete soppesare da una parte le possibilità concrete di ottenere un
cambiamento drastico nelle attuali politiche europee; dall’altra, gli
eventuali costi di una uscita dall’euro. Dibattere queste idee non è
populismo, è democrazia. Si tratta di restituire sovranità ai cittadini,
che hanno il diritto di volere un futuro migliore. Affermare che le
politiche economiche hanno peggiorato le vostre condizioni di vita non è
populismo».
Nell’immediato, dati i vincoli della nostra appartenenza all’euro, cosa può fare un governo italiano?
«Voi
avete rinunciato a gran parte della vostra sovranità entrando
nell’euro, la vostra libertà è limitata. Ma ci sono cose che potete
fare. Rendere il vostro sistema bancario più efficiente per stimolare la
crescita. Passare al setaccio le voci della spesa pubblica. Riformare
la corporate governance del vostro capitalismo. Aggredire quei problemi
di corruzione di cui Silvio Berlusconi è una manifestazione».
Vasto
programma, per il quale bisognerebbe avere un governo. A cinquanta
giorni dalle elezioni non si è trovato un nuovo governo. Le posizioni
sembrano inconciliabili, il M5S non ha accettato compromessi.
«In ogni democrazia è necessario che ci siano dei compromessi. Si parte da posizioni diverse, ma bisogna lavorare assie-
me.
Capisco la preoccupazione di non cedere sulle questioni di principio.
Io credo che una maggioranza di italiani abbia alcune esigenze comuni:
una riforma dello Stato; far ripartire la crescita; di conseguenza
cambiare le politiche di austerità».
Cosa pensa dell’ipotesi di un governissimo tra Pd e Pdl?
«Questo
mi sembra il compromesso più difficile da raggiungere. Il livello di
corruzione associato a Berlusconi e al suo partito non è compatibile con
i programmi di governo di quelle forze che si battono contro la
corruzione. Vedo più naturale una convergenza con Grillo».
Tra le proposte considerate demagogiche c’è quella di un salario di cittadinanza garantito a tutti.
«L’India,
che resta una nazione povera, ha introdotto un sistema di occupazione
garantita per le popolazioni rurali. Bisogna partire dal principio che
la disoccupazione è il fallimento di una società. E la società deve
assumersi la sua responsabilità, deve riuscire a generare una forma di
sostegno, commisurata alle sue risorse. Non è populismo affermare che il
12% di disoccupazione è un fallimento dell’Europa. Non c’è dramma più
grave di questo, di quando ci sono venti disoccupati che si presentano
per un solo posto di lavoro».
Lei è stato uno dei
pionieri nell’elaborazione di nuovi indicatori del benessere collettivo.
Dal Prodotto interno lordo si è passati al Fil (felicità interna lorda)
e altri misuratori alternativi come l’indice di sviluppo sociale. Qual è
l’utilità di questa ricerca?
«Il Pil non ci dà una misura
delle cose che contano davvero per noi: per esempio la qualità
dell’ambiente, la sostenibilità dello sviluppo, la diseguaglianza, la
giustizia sociale. Per fare due esempi ispirati dagli Stati Uniti:
abbiamo un sistema sanitario molto inefficiente e molto costoso, ma
proprio i suoi alti costi contribuiscono a “gonfiare” il valore del Pil;
abbiamo degli Stati Usa che spendono per le prigioni più di quanto
stanziano per le loro università, ma anche la spesa carceraria va a
contribuire al Pil. Sul tema della giustizia sociale un tempo la
dottrina economica prevalente diceva che la distribuzione del reddito è
irrilevante, anzi arrivava a sostenere che le diseguaglianze
contribuiscono a rendere efficiente un’economia di mercato. Invece oggi
anche il Fondo monetario internazionale ammette che esiste una
correlazione fra diseguaglianze e instabilità».
Ai leader europei che continuano a pensare che l’austerity ci tirerà fuori dalla crisi, lei cosa dice?
«E’
come la medicina medievale che pretendeva di curare i malati a furia di
salassi, togliendogli sempre più sangue. Questa gente seleziona solo le
informazioni che conferma le loro idee preconcette. L’austerity non
funziona neppure per l’obiettivo che si prefigge, di ridurre il debito
pubblico. Se non abbiamo la capacità di trarre le lezioni di questa
crisi, come fu fatto dopo la crisi del 1929, temo che saremo condannati
ad un’ulteriore ricaduta»